Cristina Sammarco

Testi critici

LE ISOLE DI CRISTINA SAMMARCO

Dopo l’istante magico in cui i miei occhi si sono aperti nel mare, non mi è stato più possibile vedere, pensare, vivere come prima.

(Jacques Cousteau)

 Ad un primo sguardo disattento, il passante occasionale potrebbe pensare che le opere di Cristina Sammarco guardano al mare che bagna l’Isola d’Elba, felicemente lambita dal Tirreno, nell’arcipelago toscano, dove l’artista ha scelto di abitare. Che ci sia una corrispondenza di amorosi sensi tra la sua pittura-non pittura e il territorio, nessuno vuole negarlo. Ma queste onde richiamano veramente un mare così placido e accogliente? Forse la parola chiave sta nel nome di questa serie, Mediterraneo, la piattaforma, l’hub, il bacino, la dimensione, su cui si gioca l’intera partita del presente. Non che ci sia un discorso politico e sociale alla base di queste sperimentazioni formali create dalla Sammarco: il gioco tra una tecnica e l’altra, il morbido transitare tra un materiale e l’altro, tra una texture e l’altra.

Protagonisti, insieme alla luce, sono i colori, descritti con stacchi di toni netti, spesso anche violenti.
Con la semplicità percettiva di un bambino e la capacità di un’artista consapevole, la Sammarco racconta i tramonti e le albe, le attese, le visioni di chi guarda il Mediterraneo. Come negare l’inspirazione implicita che la storia del presente propone con tutti i suoi segnali? L’artista parla di tutto questo astraendo, senza nessuna concessione immediata alla figurazione o alla notizia. Ancora più distanti dal paesaggio sono le sue Isole, dove lì, invece sì, emerge l’aneddoto, il racconto, la biografia, una vita, la scelta di questa artista nata a Parigi nel 1977; ma accade in maniera lieve e senza cronaca, e si perde tra i contorni frastagliati delle ceramiche e nelle forme che evocano mappe conosciute. Sono geografie reali o ideali? Non è dato di saperlo. Lucide e lussureggianti aggettano dalla parete, confondendosi con essa. Domina la forma che diviene protagonista: sono isole o sono macchie di Rorschach? Sono luoghi o sono solo forme? Sono storie o sono sogni? La materia la fa da padrona, e nell’eccellenza tecnica si perde la direzione.
Il viaggio verso questi lidi continua (la serie è un work in progress e potrebbe andare avanti all’infinito, fino a quasi smaterializzarsi), ma la bussola non funziona più.

 Santa Nastro, critica d’arte

PERCHÉ FRAGILE

Se la pittura fosse soltanto una questione iconografica potremmo dire che, rispetto alle opere realizzate giusto un anno fa e presentate nel medesimo spazio espositivo, lo sguardo di Maria Cristina Sammarco Pennetier abbia spostato, anche se di poco, la sua traiettoria: dal mare visto come dimensione assoluta, al mare inteso come ambito relativo, come elemento in relazione con la costa. O forse meglio: dal mare alle conseguenze del mare, ai suoi riverberi sottili e cangianti sui litorali, così scrupolosamente evocati dai tratti dei pennarelli. Poiché tuttavia da almeno un secolo il soggetto è quanto di più vago e di semanticamente oscuro in pittura, credo di poter dire che questo spostamento determina uno strascico minimo sulla poetica di Cristina. Mi sembra anzi che i dipinti più recenti abbiano il medesimo orizzonte di riferimento di quelli precedenti, ma che vi si protendano con più accanimento e più precisione. Questa coppia di atteggiamenti – l’accanimento e la precisione, appunto – di solito ne genera immediatamente un terzo, che potremmo definire la consapevolezza. Ecco, credo che ciò che contraddistingue i dipinti più recenti di Cristina sia la consapevolezza che l’orizzonte sfugge, è caduco, ma vale la pena di tentare di afferrarlo. La condensazione di stati d’animo e la saturazione emotiva che offre il panorama marittimo, la possibilità di attingere alla luce propria del paesaggio, di proiettarsi, di identificarsi con essa, è un processo delicato e frastagliato come certi lavori pubblicati in questo catalogo. Si può insistere nel cesellare la luminosità, nell’intagliare il volume iridescente di certe atmosfere o di alcune nuvole, ma l’essenziale sembra sempre venir celato, invece che svelato, dall’opera. Esporre dipinti comporta anche l’esporsi in questo tentativo che può risultare fragile almeno quanto necessario, se si dà retta a due celebri versi di Rilke secondo i quali «ciò che infine ci custodisce / è il nostro essere senza protezione».

Roberto Borghi, curatore d’arte

ENIGMI IN LUOGO DI MARE

“Prima di scrivere questo testo, al fine di chiarirmi le idee sul titolo scelto da Maria Cristina Sammarco per il libro che documenta il suo lavoro pittorico, mi è sembrato opportuno leggere i racconti e i romanzi ottocenteschi nei quali si parla del maelström. Terminata la lettura, ho capito che mi stavo inoltrando su di una strada sbagliata. Col gorgo evocato da Edgar Allan Poe, Emilio Salgari e Jules Verne nei loro scritti – quel vortice che effettivamente si manifesta al largo della costa norvegese a causa di un particolare andamento delle maree – le opere di Cristina hanno poco a che fare. Nei dipinti pubblicati in questo volume è assente soprattutto l’atmosfera che Poe definisce “folle e sbalorditiva”, la mescolanza tra il terribile e il grandioso, tra l’orrendo e il sublime, dalla quale gli scrittori di fine ‘800 erano così attratti e di cui andavano in cerca nel mar di Norvegia. C’è invece un rimando alle dinamiche fisiche che caratterizzano quel fenomeno naturale, riviste però in una luce metaforica. Il maelström, per come mi sembra lo percepisca Cristina, è un modo inesorabile di andare a fondo: è un precipizio indispensabile, temerario ma virtuoso; trasferendo il discorso sul piano psicologico, è interiorità allo stato puro, immersione nel proprio io più remoto. Il maelström è inoltre il mare al suo apice: il mare come dimensione totalizzante e unica, ma non ultima; forse in questo caso potremmo richiamarci di nuovo a Poe, alla sua ipotesi che il vortice fosse un transito verso l’altrove, “un ponte tra il tempo e l’eternità”. Da quanto ho scritto finora, si deve dedurre che le opere di Cristina si relazionano con l’interiorità e il mare, ma devo aggiungere che ciò avviene in modo meno lineare di quanto appaia. Nei dipinti il mare è presente in maniera il più delle volte esplicita, altre volte implicita, comunque e sempre indubbia: ma non è il loro soggetto. Se c’è qualcosa che queste opere intendono rappresentare è piuttosto una forma di intimità con sé stessi, uno sprofondamento nel proprio io che riesce a non farsi abissale, una condensazione di sentimenti che solo in alcuni casi ha un aspetto cristallizzato, salino, mentre di solito permane in uno stato fluido, liquido. Il mare, nella pittura di Cristina, è all’incirca un filtro, un ambito in grado di distillare gli stati di grazia, di permettere che la vita raggiunga il suo zenit. Perché e come tutto ciò avvenga, e perché accada lì, in prossimità del mare, i dipinti non lo dicono: parte del loro fascino sta proprio nell’essere eloquenti ma allo stesso tempo sottilmente sfuggenti. Così intrinsecamente, riservatamente inafferrabili, e insieme capaci di interpellare chi li guarda, da rammentarmi il bel titolo di un romanzo di Fruttero & Lucentini, Enigma in luogo di mare. Manco a dirlo, neppure quel libro, titolo a parte, ha molto a che fare con la pittura di Cristina. Un romanzo che credo invece c’entri eccome, in un modo però anch’esso intrinseco e sfuggente, è Gita al faro di Virginia Woolf. Chi l’ha letto ricorderà forse il personaggio di Lily Briscoe: una pittrice che, nella terza e ultima parte del racconto, si trova in riva al mare, alle prese con il ritratto di una figura amata e da poco scomparsa. Come Cézanne e come la stessa Woolf, di cui è una trasposizione letteraria, Lily è convinta che a natura è all’interno. E forse – aggiungo io invertendo i termini del discorso – che l’interno è come la natura, che l’interiorità può essere rappresentata come un paesaggio. Per questa ragione, il compimento del ritratto, che coincide con il termine del romanzo, avviene miracolosamente, “con i verdi, gli azzurri, le linee che corrono in alto e di traverso, la volontà di qualcosa.” In fondo anche un miracolo, ha scritto altrove la Woolf, perché avvenga, bisogna volerlo, bisogna cercarlo. Sembra che Picasso, all’apice del genio e della tracotanza, abbia detto di sé: “io non cerco, trovo”. Nel mio piccolo invece io continuo a credere che l’arte abbia valore quando cerca di ritrovare qualcosa: nel caso di queste opere, dei “momenti d’essere”, come li chiama la Woolf, degli attimi di pienezza precipitati vorticosamente in pittura.”

Roberto Borghi, curatore d’arte

ANTHROPOLOGICAL HERBARIUM

La performance Erbario antropologico è un progetto di carattere concettuale fondato su teorie filosofiche e mistiche sull’animazione universale della natura e in particolare sulla sensibilità del mondo vegetale, oggetto anche di recenti esperimenti scientifici neurobiologici che dimostrano la capacità delle piante di comunicare attraverso il loro sistema bioelettrico, non dissimile al nostro sistema nervoso. I visitatori sono coinvolti, in un gioco scientifico, a entrare in contatto emotivo con i fiori e le piante e a percepirne i messaggi: un gesto fantasioso che ribalta la prospettiva, ponendo l’uomo in posizione di ascolto e non di dominio verso la natura. L’artista, assumendo un ruolo medianico, elabora la forma e il colore delle piante scelte in tavole cromatiche e ricami, insieme al messaggio che esse hanno ispirato, creando opere su carta in ricordo di un’esperienza che è soprattutto di conoscenza interiore, volta a instaurare nuove relazioni fra l’uomo e il regno sconosciuto degli organismi vegetali.

Anna Mariani, curatrice d’arte

IL MARE DOVE NON C’E’

Ne Il mare dove non c’è, che il mare ci sia davvero o sia solo un’idea poco importa, qualche forma di mare lambisce comunque le vite e le opere di Godot, di Cristina Sammarco e di Francesca Meana.  Così come la carta è materia comune a tutt’e tre, benché ora supporto fotografico, ora apporto materico funzionale al concetto. Godot è navigatore di lungo corso, e in fondo tutto per lui è mare, le acque azzurre o lattiginose delle Eolie e la volta celeste a cui tendono le pareti di San Galgano.

Anche perché, superato l’omaggio ai luoghi, l’accento principale dei lavori di Godot è la visione che coglie di sorpresa: Strombolicchio che si profila all’orizzonte come un miraggio, la Canna nei pressi di Filicudi che emerge dall’acqua ma nell’acqua trema e sembra sciogliersi, mentre vi si specchia. Poi il colombo visto dal basso, in un momento di perfezione formale rubato al caso che lo rende centro di tutte le cose, per un instante senza fine. Godot ferma le immagini che gli si parano innanzi facendolo trasalire, senza bisogno di continuità iconografica. La continuità sta nello stupore.

Il mare prosegue nelle ceramiche e nelle carte di Cristina Sammarco, che su un’isola vive e al mare rende omaggio sempre. Con ispirazione quasi animista riconosce alle isole una sorta di aura – l’ombra che proietta il loro profilo sollevato –, alle onde del mare una sensibilità cromatica varia, nonché la consistenza rugosa della carta vetrata o la scivolosità dell’olio. C’è persino qualcosa di sacrale nel biancore levigato delle isole di ceramica, quasi ostie caramellate che galleggiano per levità di spirito. Mentre nei mari, per lo più piccoli, si coglie una concentrazione di senso nelle onde che si passano il ritmo l’un l’altra, idealmente dilatabili secondo l’ampiezza del sentire.

Un mare d’aria è invece quello di Francesca Meana, che grazie all’impalpabilità della nebbia bilancia geometrie, specie negli scorci di Milano e di Parigi.I suoi paesaggi traggono spunto dal libro di Bruno Munari Nella nebbia di Milano, giocano con le profondità illusorie di scenografie teatrali, si illuminano dal retro come le fotografie di Jeff Wall e si possono percorrere con le dita quasi, toccandoli, diventasse possibile camminarci dentro. La sue nebbie, in parte orgogliosamente lombarde, sono anche un ingrediente per calibrare i pesi di questi teatrini prêt-à-porter, che concentrano in sé perizia di segno, sensibilità materica e consapevolezza di rimandi, per poi decantarsi in piccole nostalgie infantili. Il filo che lega i tre artisti non è però, a ben vedere, l’occasione tematica, è semmai lo sguardo. Certo, lo sguardo di Godot ha la maturità del suo fare, è intuitivo e rapido, e solo in seconda battuta si piega a una riflessione più lenta. Cristina Sammarco e Francesca Meana si prendono invece più tempo meditativo e costruttivo. Ma nell’incontro con il reale che interpretano c’è un silenzio simile, il trattenere il respiro che è dell’incanto: poi il silenzio si diversifica nella forma, restandone il centro.

Silvia Ferrari Lilienau, critica d’arte